Se il ventesimo secolo è stato spesso contraddistinto da una volontà di rottura che, a partire da Malevic, si è fatta espressione della tensione drammatica di una società che cavalcava un’accelerazione inusuale rispetto al passato, l’alba del nuovo millennio sembra averne ereditato il disagio facendosi carico di un sentimento di inadeguatezza che avvalora e radica la confusa incertezza figlia di una non cosciente consapevolezza del non sapere. In una logica di valori scardinati e continuamente rimessi in discussione in nome di icone globalizzate che condizionano mediaticamente il vissuto quotidiano, si ripresenta impellente l’esigenza di punti saldi sui quali incentrare un rinnovato sistema di riferimenti.

In tale contesto trova una sua precipua collocazione la ricerca operata da Scerbo.

Fortemente marcato dagli studi in filosofia, l’artista si è inizialmente basato su un approccio analitico che lo ha indotto a utilizzare il filtro della propria razionalità per trasferire su tela situazioni emozionali legate alla percezione della realtà esterna. Microcosmo a cui ogni cosa si può ricondurre, come per gli artisti rinascimentali l’uomo diventa ragione e concausa del primo investigare di Scerbo che, quasi scientifico nel tradurre in pensiero una gamma di differenti sfumature emotive, ne destruttura la personalità per trovare un accesso alla sua essenza più profonda e remota. Nascono le scomposizioni in cui la presenza di volti ammicca all’osservatore invitandolo a esplorare i propri aspetti più reconditi: in apparenza banali nel loro rimandare al ménage di ogni giorno, mobili con cassetti da aprire sottolineano l’ingannevole semplicità del processo cognitivo del Sé.

Pressoché inevitabile lungo il percorso di questa mappatura dell’inconscio ritrovare l’eco della sperimentazione espressionista che non risponde ad alcun paradigma se non quelli dettati dalla sensibilità dell’artista e interviene a controbilanciare il tentativo di ricondurre tutto a una dimensione intellettuale. Dal rapporto con la sfera più strettamente mondana emergono con contenuto fragore le emozioni: transitorie per loro stessa natura, implicano un’immediatezza di esecuzione volta a non disperdere l’energia che Scerbo investe nell’operare una sorta di transfert verso l’universo cromatico. Parallela e soavemente incombente, la figura femminile – madre creatrice e nutrice – esplicita il compiersi di un processo maieutico che si sta concretizzando nella crescita umana dell’artista.

Lo sforzo di attenersi a un realismo di pensiero che induceva una spontaneità ragionata del gesto creativo cede a poco a poco il passo a un approccio trascendente.

A pungolare il cammino di Scerbo irrompe il vuoto quale elemento di disturbo e di stimolo. Oggetto di indagine privilegiato da pochi artisti in ragione della sua indefinitezza, il vuoto e la sua rappresentazione costituiscono una sfida in cui può cimentarsi solamente chi scelga di abbandonare certezze e pretesti auto-referenziali.

L’impatto sulla produzione artistica che ne discende dissolve l’approccio estetico degli inizi. Rapide si inanellano le tappe che conducono al concretizzarsi di una poetica che coniuga spiritualità e conoscenza sensoriale: vibrazioni sensibili e trascendenti si fondono scardinando i vincoli razionali che ne frenavano la libera manifestazione. Il colore rimane protagonista ma si fa interprete di una rinnovata presa di coscienza del ruolo giocato dal proprio sentire che trasforma il punto di vista di Scerbo. L’immediatezza dell’atto creativo diviene rappresentazione dell’immediato. La materia si fa espressione dell’energia che l’artista infonde e  la trascende. Le componenti figurative diventano sempre più rarefatte e si riducono a un’essenzialità che sembra presagire un’evoluzione verso forme astratte.

Tale tendenza ha già trovato una parziale compiutezza nelle opere plastiche che riflettono la componente di ascesi verso un quid per il momento arduo da identificare. Gli squarci lasciati nel legno dallo scalpello si prefiggono l’apertura di un varco che dal tangibile permetta di accedere al vuoto al fine di esplorarlo e un giorno comprenderlo. Confrontato a un compito dalle molteplici sfaccettature, l’artista indaga la possibilità di colmare tale vuoto secondo due direzioni. In un primo tempo utilizza lo stucco quale strumento lenitivo di fronte alla sensazione di smarrimento originata dall’incertezza conoscitiva.  Nei lavori più recenti concentra il proprio focus sulla materia quale eone a prescindere dal quale il concetto di vuoto risulterebbe incomprensibile in quanto l’uno giustifica reciprocamente l’esistenza dell’altro. La materia rimossa, plasmata e rielaborata, ritrova la propria collocazione originaria ma la sua natura ha subito una profonda trasformazione:  secondo un processo che si armonizza con il costante flusso del divenire universale, oggetto di rappresentazione diviene l’esperienza accumulata.  Una sublimazione del vuoto che accorcia la distanza che separa l’artista dall’inafferrabile.

 

Danilo Jon Scotta